di P F
Illustrazione di Livia
Io sono quel che mangio, ma anche quel che spreco. Se questo è vero per il singolo individuo, non può non essere altrettanto vero per una comunità come quella cittadina.
Partendo dalla prima parte di questo assunto, possiamo affermare che da un lato le tradizioni culinarie e i piatti tipici fan sempre più parte della cultura di un territorio – basti pensare che sono diciannove i patrimoni immateriali dell’umanità legati al cibo -, dall’altro lato la varietà e le diverse influenze gastronomiche denotano la multietnicità di un luogo. Valorizzare questa diversità permette di tramandare storie, usi e costumi di un popolo che, in una società consumista e invasa da multinazionali del cibo, tendono ad essere sopraffatti e dimenticati.
La seconda parte dell’affermazione iniziale apre invece la strada a riflessioni su chi non ha accesso ad un’adeguata alimentazione. La noncuranza della società occidentale a quello che è un bisogno essenziale della vita umana genera un sistema per cui alcuni hanno il privilegio di considerare il cibo uno sfizio, mentre altri una necessità difficile da soddisfare.
Questa breve premessa può essere riassunta in due macro-temi: il cibo come strumento di inclusione e lo spreco alimentare.
A marzo del 2016, la nostra città ha modificato l’articolo 2 del proprio Statuto, lett. o), inserendo tra le finalità del Comune la promozione «dell’attuazione del diritto a un cibo adeguato, inteso come diritto ad avere un regolare, permanente e libero accesso a un cibo di qualità, sufficiente, nutriente, sano accettabile da un punto di vista culturale e religioso, che garantisca il soddisfacimento mentale e fisico, individuale e collettivo, necessario a condurre una vita degna».
Dal dato letterale emerge sicuramente un’attenzione al diritto a nutrirsi e, inoltre, l’espressione «accettabile da un punto di vista culturale e religioso», per quanto non proprio curata stilisticamente, sembra altresì cogliere l’importanza della diversità delle tradizioni culinarie, nonché il doveroso rispetto da parte delle istituzioni dei diversi regimi alimentari e dei precetti derivanti dalle varie religioni che si scelgono di abbracciare.
Come già scritto in un nostro precedente articolo (https://www.strabarriere.it/torino-food-policy/), la Città di Torino, in attuazione della suddetta modifica dello Statuto e in armonia con gli obiettivi derivanti dalla sottoscrizione del Milan Urban Food Policy Pact, avvenuta nel 2015, ha pubblicato il report Turin Food Policy, il quale analizza sia le buone prassi in vigore nel nostro Comune, sia le prospettive sul tema.
Dal report si può evincere che un ruolo centrale nel dibattito sul cibo è ricoperto dagli enti del Terzo Settore, ossia associazioni, cooperative e imprese sociali che da anni si dedicano a supplire alle mancanze delle istituzioni. Il loro lavoro tuttavia è spesso dato per scontato e non valorizzato, essendo oggetto di appropriazioni nei proclami della politica e strumento di “charitywashing” per quelle imprese interessate meramente al profitto.
Per tale ragione, Strabarriere ha deciso di iniziare una rubrica di approfondimento sul tema del cibo, nella quale parleremo con persone che sono impegnate nel settore. A questa rubrica accompagneremo una mappatura del territorio che andrà ad arricchirsi man mano che conosceremo le varie realtà. Al termine del percorso, è nostra intenzione redigere un nuovo report, aggiornato rispetto a quello prodotto dal Comune.
Non ci limiteremo ad un’analisi dello stato dell’arte, ma l’obiettivo, oltre a sottolineare l’importanza dell’operato di questi enti, è quello di approfondire, anche attraverso il dialogo con gli stessi, quali sono le situazioni critiche e i fallimenti dell’attuale sistema di mercato che vede il cibo non come forma di sano sostentamento ed espressione di una determinata cultura, ma come semplice fonte di guadagno.
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