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Illustrazioni di Carlotta Gambino
Residui del regime nella toponomastica torinese
È del 10 novembre 1945 una delibera della Giunta popolare di Torino presieduta dal comunista Giovanni Roveda che stabilisce «la soppressione di denominazioni riguardanti il regime nazi-fascista» a partire dal gennaio successivo (par. 93). Decadono così tra le altre le intitolazioni di vie al discorso di Mussolini dopo l’assassinio Matteotti (via III gennaio), alla nascita dell’Impero (via IX maggio) o alla fondazione dei Fasci di Combattimento (via XXIII marzo), rimpiazzate da quelle a nomi di spicco dell’antifascismo come Bruno Buozzi, Piero Gobetti o Giovanni Amendola, mentre i martiri della lotta partigiana Errico Giachino, Giuseppe Perotti, Eusebio Giambone e Luigi Capriolo sostituiscono gli altrettanti squadristi Gustavo Doglia, Dario Pini, Giovanni Porcù del Nunzio e Amos Maramotti.
La rapida defascistizzazione non ha però tempo e volontà per fare i conti con i residui del colonialismo italiano, innalzato a monumento dal fascismo stesso e da quanti l’avevano preceduto: in piena coerenza, tra l’altro, con la fresca intitolazione di una strada a Giovanni Amendola, che prima di essere antifascista era stato Ministro delle Colonie del governo Facta, per cui conto aveva istituito alla fine del 1922 una fitta rete di campi di concentramento in Libia «per ragioni contingenti o di ordine pubblico» e altre misure di vera e propria polizia coloniale. Sia come sia, ad oggi gli stradari torinesi continuano a segnalare una nutrita serie di vie e piazze dedicate a luoghi e «imprese» del nostro imperialismo, da Asmara a Derna e dalla Cirenaica alla Somalia. Se ne è accorto a fine marzo l’assessore a welfare, diritti e pari opportunità Jacopo Rosatelli (SE), che ha proposto la soppressione della toponomastica coloniale, attirandosi non solo gli attacchi della destra, ma anche aspre critiche interne alla stessa maggioranza, sostanzialmente appoggiate dal sindaco Lo Russo, per cui «il razzismo non si combatte con la toponomastica ma con lo studio e la diffusione della cultura».
Nel mucchio dei nomi sospetti intanto c’è anche spazio per qualche fascista, ricordato in una via dimenticata di una periferia, magari per essere «eroicamente» caduto nella campagna d’Etiopia di Badoglio-Graziani. È il caso di Francesco Azzi, oggi nome di una traversa di corso Racconigi, ieri giovane tenente del Regio Esercito morto nel Tigrè, oppure di Gianfranco Zuretti, già viceconsole, spia, tenente colonnello caduto con altri diecimila nella battaglia di Mai Ceu e dedicatario di un senso unico davanti al CTO. Colpisce poi più degli altri l’onore riservato a Dalmazio Birago, aviatore di Galeazzo Ciano morto ad Asmara «invocando i nomi del Re, del Duce e dell’Italia», e per questo decorato l’11 maggio 1936 con la medaglia d’oro al valor militare. Nel 1937 il fascio gli dedica non solo l’attuale corso Belgio, ma pure l’istituto professionale «Dalmazio Birago» oggi in corso Novara e via Pisacane, che continua da allora a portare il nome dell’«aviatore alessandrino caduto ventisettenne nel cielo di Amba Alagi» (così sulla pagina della scuola).
Cancel culture: questa l’accusa facilmente spendibile, almeno a livello mass-mediatico, per chi propone il confronto con il nostro passato coloniale, eluso anche dalla premier Meloni che in visita in Etiopia a metà aprile non spende parole per condannarlo. Quasi che la monumentalizzazione delle (poche) vittorie dell’imperialismo primonovecentesco fosse un atto disinteressatamente culturale (se ne esistono), e perciò privo di ricadute politiche, o che, liquidato sbrigativamente il fascismo come una parentesi estranea alla natura degli «italiani brava gente», non toccasse a noi di comprendere il radicamento storico-ideologico che l’ha cresciuto. Non certo cancellando la storia coloniale, ma dandole più spazio nei manuali, o magari aggiungendo alle targhe altisonanti qualche riga che spieghi cosa faceva Dalmazio Birago quando è stato colpito «nel cielo di Amba Alagi», quante donne sono state stuprate in Eritrea, Etiopia e Somalia o quali effetti aveva l’uso degli aggressivi chimici che Badoglio, Graziani e Mussolini ordinarono durante la guerra del 1935-1936. Lo scriviamo in occasione del 25 aprile, ricordando che Liberazione, prima che una passeggiata rituale tra lapidi, è per noi un processo in atto, inconcluso, perfettibile e migliorabile nella lotta, ora e sempre.
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