di Rebecca Patelli
Cosa significa gender swap? Si può pensare a un reale sradicamento delle etichette? Oltre la barriera dello stereotipo: empatia, profondità, ascolto.
Gender swap significa, letteralmente, «cambio di genere». È un termine usato nel campo dell’animazione per indicare il passaggio di un personaggio dal genere femminile al maschile e viceversa. Ad esempio in Giappone sono stati gli stessi fan, in alcuni casi, a disegnare la versione del genere opposto di protagonisti di anime, eguagliando o addirittura superando l’originale a livello grafico. Talvolta, gli stessi autori hanno scritto storie “parallele” cambiando il genere dei personaggi.
Tuttavia, questo significato ha superato la barriera artistica e lo Swap è diventato una vera e propria usanza in diverse scuole statunitensi e non, con un giorno ad esso appositamente dedicato. Il Gender Swap Day consiste, infatti, nel vestirsi con abiti «tipici» del genere opposto o comunque, almeno in apparenza, slittare nell’altro genere.
L’idea di fondo di questa giornata è sdoganare lo stereotipo che associa un determinato modo di vestire a un genere specifico, per andare contro lo stigma sociale che ne deriva: il nostro modo di vestirci è parte dell’espressione della nostra personalità e, proprio in quanto tale, non dovremmo associarlo a nessuna categoria.
Inoltre, mettersi letteralmente «nei panni dell’altro genere» significa provare a cogliere cosa vuol dire essere «maschio» o «femmina»: come queste due realtà vengono rappresentati dalla società e dai media; come ci si sente a essere uno o l’altra; cosa implica incarnare un determinato cliché.
Nonostante le migliori intenzioni, però, ci sono sfumature che stonano. Davvero vestendosi come farebbe il genere opposto si può abbattere lo stereotipo? Spesso e volentieri ci si ferma qui e, anzi, si sfocia nell’apoteosi dello stereotipo stesso. Perché i maschi vestiti da femmine si lanciano in pose volutamente ammiccanti? E perché le femmine vestite da maschi si riuniscono per scimmiottare la loro massa muscolare? La lotta al luogo comune non si vince rispettandone le regole, ma riconoscendo ed evitando i pregiudizi e i meccanismi culturali che li generano.
Piuttosto, se la giornata (e quelle che seguiranno) fosse accompagnata da ascolto reciproco e sincera trasparenza, allora si potrebbe pensare a una reale rottura. Spiegare le proprie condizioni, i propri sentimenti, le proprie esperienze; esplicitare cosa significhi essere donna o uomo; confrontarsi su quanto possa essere soffocante rientrare in etichette prestampate e su quanto sia pesante dover soddisfare le aspettative sociali e familiari… ecco, questi sono i temi di cui si dovrebbe discutere.
A ciò si aggiunga che, per quanto la tradizione ci narri una prospettiva binaria, è ormai assodato che il genere non è solamente maschile e femminile, ma include anche l’identità non-binary (ad esempio quella genderfree e quella agender), le quali non necessariamente implicano un modo specifico di vestirsi. Pertanto, impostare questa giornata sul binarismo implica l’esclusione di realtà che, per quanto note, sono poco approfondite e poco ascoltate. Esperienze a noi estranee, che possono arricchire la nostra prospettiva sul mondo: chissà com’è la vita di una persona che vive la sua identità e la sua sessualità in modo diverso noi.
Se ci fosse quindi un maggiore approfondimento nel ricercare le cause degli stereotipi culturali e se ci fosse un concreto impegno nell’ampliare gli orizzonti del pensiero collettivo, realmente ci renderemmo conto della nostra unicità individuale. Bisognerebbe andare veramente oltre la barriera dello stereotipo e riscoprirci come persone umane, protagoniste di vite diverse. Forse, più che un Gender Swap Day si dovrebbe istituire un più generale e significativo Against Stereotype Day, nel quale realmente si cerchi di cooperare con impegno e predisposizione a conoscere vissuti diversi, senza pregiudizi. E poi, chi vuole, può vestirsi in modo diverso, oppure – ancora meglio – semplicemente vestirsi secondo il suo agio, senza etichette di alcun tipo.
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