Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni
Più le spese
Ma se capirai se li cercherai
Fino in fondo
Se non sono gigli son pur sempre figli
Vittime di questo mondo
Città Vecchia, Fabrizio De Andrè
di Gaia Giangrande
Tutte le fotografie sono state scattate nel carcere di Opera Milano, Redazione Camminiamo Insieme, 2016
«Sono molto vicino al tema da quando, nel 2016, tramite la mia associazione scout ho partecipato ad un workshop immersivo di tre giorni nel carcere di Opera a Milano. Non avevo idea di quale mondo si celasse dietro questa realtà, sono rimasto colpito soprattutto dai personaggi che si trovano dietro queste mura. In quell’occasione sono entrato in contatto con persone che avevano già seguito un percorso di recupero, dunque pronte al confronto. Non è stato difficile vedere la Persona prima del reato: porto nel cuore Ciro, un carcerato con alle spalle una pena da quasi mille anni…
Quando sono venuto a conoscenza della possibilità di svolgere questo servizio nella mia città non ci ho pensato due volte: Ad oggi siamo una decina di ragazzi a svolgere l’attività, sotto la guida dei Padri Cappellani».
Quale iter seguite per entrare nel carcere?
Istituzionalmente la messa al mattino si tiene per le 9:30, il ritrovo per noi è una mezz’ora prima. Per entrare in carcere devi mostrare il documento all’ingresso, dopo l’identificazione ci viene dato il badge. Passato il primo cancello raggiungiamo le strutture dedicate agli uffici dove, dopo aver effettuato ulteriori controlli, bisogna superare un secondo cancello. Qui si viene ispezionati, si lasciano tutti gli effetti personali e dopo il metal detector si è finalmente dentro. Per tutta la trafila si impiega all’incirca un quarto d’ora.
Come avviene l’incontro con i detenuti?
Solitamente è il personale a chiamare gli interessati. A seconda dell’orario sarà una fascia diversa a partecipare alla funzione. La Casa circondariale ospita 8 padiglioni, suddivisi ciascuno in diverse sezioni, destinate ad ospitare tutti i circuiti detentivi previsti dall’ordinamento. Noi li aspettiamo giù per poi andare insieme in cappella. Dopo la messa si cerca di ritagliare un momento per interagire e chiacchierare.
È interessante notare le differenze che ci sono tra le persone detenute nelle diverse sezioni durante la funzione. Gli appartenenti all’alta sicurezza, ad esempio, condannati principalmente per reati di stampo mafioso, hanno un approccio molto fisico: appena entrati baciano i piedi al crocifisso e carezzano la Madonna, ricalcando lo stereotipo presente nell’immaginario collettivo di «mafioso italiano devoto di metà secolo scorso». Questa devozione però si tramuta durante la messa in chiacchiericcio e scarso interesse.
L’esperienza avuta con i cosiddetti sex-offenders, invece, è diametralmente opposta:, la partecipazione è notevole e la funzione è molto sentita. C’è un grande coinvolgimento nei canti, tra di loro c’è anche un ragazzo diplomato al conservatorio che ci aiuta a suonare. Ricordo un episodio in cui hanno voluto proporre loro dei canti e, dopo averceli insegnati, siamo stati noi a seguire loro.
Che tipo di rapporto si è instaurato tra di voi?
È ancora presto per parlare, abbiamo iniziato questa attività a Novembre 2022 e per queste cose occorre del tempo. Però posso riconoscere che siamo ben voluti, ci ringraziano spesso e con alcune persone stiamo iniziando ad instaurare un rapporto. A volte ci chiedono perché siamo lì quando potremmo essere altrove, questo viene profondamente apprezzato e si avverte un grande senso di gratitudine nei nostri confronti.
Credi in un possibile cambiamento di queste persone?
È chiaro che fare un percorso di cambiamento in carcere è molto, molto difficile. Lo dimostrano i tassi di recidiva, che in Italia sono al 60/70%. Bisognerebbe cambiare radicalmente l’impostazione del carcere, ma lì si passerebbe all’utopia, o meglio, ad una realtà che è ancora molto lontana dall’Italia. Ci sono tanti modelli che sembrano funzionare molto bene, ad esempio nel nord Europa, Scandinavia e Norvegia hanno un tasso di recidiva davvero irrisorio. L’impostazione è diversa, il carcere non è visto come prigione insormontabile, ma come luogo di possibile rinascita. Lì si applica la cosiddetta giustizia riparativa.
Il fatto è che andrebbe compiuto un lavoro alla base, su tutti quei contesti che portano all’essere rinchiusi in carcere. Bisognerebbe operare sulla società e poi in ultimo sul carcere. Quando nasci nella famiglia e nella località sbagliata, è difficile intravedere un futuro diverso da quello già scritto.
Tra qualche anno ti vedi ancora in quest’ambito?
Sicuramente mi piacerebbe fare un corso per diventare un volontario nel senso più stretto del termine, occupare cioè un ruolo primario nella riabilitazione dei detenuti. Parlando di un futuro più prossimo l’idea è quella di continuare e implementare questo servizio. Attualmente stiamo lavorando su una distribuzione di vestiti. Il sogno è riuscire ad emulare il carcere di Opera a Milano nella realizzazione di un workshop.
Perché lo fai? Cosa lascia al livello personale?
È davvero difficile rispondere. Credo sia una risposta ad un servizio: sento che c’è un bisogno e mi piace, nel mio piccolo, riuscire a dare un contributo. Inoltre, trovo l’incontro con queste persone estremamente arricchente; a volte, dietro un semplice sguardo, riesco a leggere molto.
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