di Francesca Sapey e Gaia Giangrande
Foto di Ludovico Benedetto in missione con Sapori Reclusi
Parlare di guerra non è mai semplice, soprattutto se è vicina a noi, nello spazio e nel tempo: troppe dinamiche possono sfuggire, dal momento in cui viene a mancare quel filtro storico che aiuta, talvolta, a riordinare i pezzi, ad avere un quadro generale, non per forza corretto, ma pur sempre più completo.
Ci siamo chiesti quale modalità utilizzare per parlare del conflitto russo-ucraino, senza avere alcuna pretesa storica, o di qualsivoglia altro genere. Così abbiamo lasciato la parola a due ragazzi, volontari per l’associazione culturale Sapori Reclusi, nata nel 2010 a Fossano grazie al fotografo Davide Dutto. Anche loro si occupano di raccontare, attraverso la fotografia, «storie di vite vissute ai margini».
Nei primissimi giorni di guerra l’associazione Sapori Reclusi, con l’aiuto di volontari e di altre associazioni, quali Bus Company, è riuscita ad organizzarsi per istituire un corridoio umanitario, in modo da fare qualcosa di concreto per la popolazione ucraina, colpita dalle devastazioni della guerra.
Di coloro che hanno partecipato a questi viaggi, abbiamo avuto il piacere di intervistare Ludovico Benedetto, 25 anni, torinese, fotografo e copywriter nel collettivo Atelier Digitale e prossimo alla laurea in Scienze internazionali dello sviluppo e della cooperazione, e Filippo Scimone, fotografo e videomaker, associato a Sapori Reclusi.
Filippo collabora da circa un anno con l’associazione e, nel momento in cui il presidente Davide Dutto ha messo in moto la rete di conoscenze che gravitano attorno a Sapori Reclusi per organizzare il primo viaggio verso Suceava, al confine rumeno-ucraino, ha deciso di fare da pioniere, partendo alla ventura, senza conoscenze sul territorio, senza un vero piano.
Ludovico, invece, è venuto in contatto con Sapori Reclusi proprio cercando un modo per andare in Ucraina e documentare, attraverso le sue fotografie, ciò che stava accadendo nei Paesi coinvolti direttamente nel conflitto:«Mi sono messo a chiamare tutti i miei contatti per trovare un modo per andare là a documentare: sentivo di doverlo fare. La guerra era tornata in Europa, geograficamente parlando, e per la cosiddetta vicinanza relativa, tutti noi ci sentiamo più vicini; inoltre la nostra generazione, in Europa, non aveva mai conosciuto niente di simile. Quando ho visto che Sapori Reclusi cercava volontari per istituire un corridoio umanitario, ho deciso di partire, anche se non come fotografo o reporter».
Al momento dell’intervista, l’associazione aveva già compiuto tre viaggi nei territori di guerra: il primo pochi giorni dall’inizio della guerra, verso Suceava, il secondo a Przemyls (al confine polacco-ucraino) e il terzo a Leopoli. Si partiva con vestiti, medicinali, cibo in scatola e aiuti di vario genere da portare lì. Una volta sul posto, si cercavano persone da portare in Italia, naturalmente con alloggi già pronti e predisposti per il loro arrivo.
Filippo, fin da subito parte integrante della squadra di volontari, ci racconta come tutto ha avuto inizio: «Per il primo viaggio non eravamo affatto organizzati, non sapevamo nemmeno dove saremmo andati di preciso, non avevamo appoggi. Una volta arrivati a Suceava abbiamo trovato questo hotel, che era stato riconvertito in luogo di accoglienza. Qua abbiamo lasciato le cose che avevamo portato e abbiamo caricato 40 persone. Con quel po’ di esperienza, abbiamo affrontato i due viaggi successivi facendo la stessa cosa: portare aiuti e riportare in Italia persone. In Italia, stiamo cercando di accogliere in un certo modo, rispetto ad altri Paesi, assicurando loro delle case, un lavoro fondato sugli studi e le esperienze lavorative precedenti delle persone: questo è ciò che vogliamo far capire. In altri posti, gli sfollati vengono presi e messi in una tendopoli; non c’è davvero l’intenzione di far integrare. Molti, invece, non vogliono spostarsi di molto, preferiscono rimanere vicino ai confini perché pensano che la guerra finirà a breve e loro potranno tornare indietro».
Ludovico aggiunge: «La parola chiave, qui, è e rimane dignità. Inizialmente, durante il primo viaggio, l’idea era far salire coloro che già avevano un contatto in Italia. Una volta saliti sul pullman e varcato il confine molti hanno ammesso di non avere nessuno in Italia, è gente che scappa dalla guerra, e quello è l’unico pensiero che li guida. La prontezza è stata quella di trovare una sistemazione a tutti (generalmente nei pressi di Cuneo, dato che lì opera l’associazione). Dopodiché, c’è un dopo: Davide, il presidente di Sapori Reclusi, si è curato di seguire gli sfollati, andando anche nei giorni successivi a trovarli e ad aiutarli».
A questo punto sorge spontaneo chiedersi come sia avvenuto il coordinamento degli spostamenti lungo le tratte interessate; trattandosi di un tragitto molto lungo ci sono diverse dogane da attraversare, e i contrattempi sono all’ordine del giorno.
«La logistica dei nostri viaggi è stata interamente gestita da Bus Company, che facendosi carico di tutte le spese economiche relative al viaggio ha reso possibile il tutto. Gli autisti hanno giocato un ruolo fondamentale: persone con un grande spirito di adattamento hanno assicurato che nessun imprevisto fosse d’ostacolo, e il cui atteggiamento positivo ha permesso di mantenere alto il morale nonostante la situazione» racconta Ludovico.
La fuga però non è uguale per tutti, e non tutti hanno le stesse possibilità di lasciare il paese: come evidenzia Filippo «anche in guerra pecunia vincit omnia: infatti diversa è la sorte di famiglie che si trovano in condizioni molto agiate, che, sotto pagamento di un’ingente tassa (l’equivalente di circa 20.000 euro) possono sottrarsi alle leggi marziali che vietano agli uomini di età compresa tra 18 e 60 anni di lasciare il Paese. Risulta così un paradosso vedere macchine costose che con facilità riescono a varcare il confine, mentre a pochi metri di distanza ci sono madri e figli, famiglie divise, costrette ad un destino incerto».
«Questi dove siamo andati noi sono dei “non luoghi”», sottolinea Ludovico riferendosi alle strutture di accoglienza, «posti di passaggio situati al confine, dove i rifugiati sostano per poco in attesa di andar via, o di rientrare, per vedere in che condizioni versano la loro casa e la loro città. Immaginiamoli, questi centri: spesso sono stabili riconvertiti ad hoc in poco tempo, con grandi stanzoni colmi di lettini allineati, dove cibo e beni di prima necessità sono assicurati. Eppure bisogna tener conto che nel corso di pochi giorni si è avuta l’urgenza di gestire 10 milioni di persone che attraversavano il Paese. Organizzazioni, privati, volontari, da Wisconsin, Inghilterra, Francia, Germania, Argentina, solo per citarne alcuni, sono accorsi in prima linea per fornire soccorso, ognuno con i mezzi di cui disponeva. La rete di solidarietà sembrava infinita. Questa solidarietà risulta fondamentale in un momento così delicato. La vicinanza umana è alla base di ogni intervento, la dignità non deve mai venir meno: soprattutto in situazioni di estrema tensione, è ciò che ti permette di non uscire di testa».
Filippo racconta anche di essere rimasto colpito dalla capacità dell’uomo di adattarsi a situazioni fuori dalla norma: «Vivi in un posto in cui le sirene suonano ogni due ore. Alla prima sirena le persone corrono a nascondersi, alla seconda camminano, alla terza non si nasconde più nessuno. Anche noi, dopo sole 24h, ci siamo abituati: al primo allarme, spaventati e in stato di agitazione, siamo corsi a nasconderci; alle 4:00 di notte, quando è suonata l’ennesima sirena, di prassi mi sono rifugiato nel bunker; mezz’ora ed ero in camera a dormire. Sono poi venuto a sapere che quella sirena annunciava un bombardamento avvenuto vicino Leopoli, dove alloggiavamo noi. Ti abitui a questa normalità, una normalità angosciante».
La guerra, poi, ha impatti anche molto diversi a seconda della zona, precisa Ludovico. Infatti, «l’Ucraina è molto grande, ci sono città che sembrano essere tralasciate dal conflitto. È il caso di Odessa: questa città subisce un’offensiva ridotta. Essendo una città portuale, ha un porto che i russi vogliono funzionante. Lì la vita riesce ad essere relativamente tranquilla. La gente va al cinema, fa la spesa normalmente, finché non arrivano le sirene, che fanno interrompere la vita per quel lasso temporale che serve a far rientrare l’emergenza bombardamento. Altri Paesi, invece, non esistono più: a Mariupol non puoi entrare, se non a piedi, perché le strade sono diventate impraticabili. Durante il viaggio, ad esempio, alcune ragazze ci hanno mostrato le immagini delle proprie città, a confronto, prima e dopo la distruzione portata dalla guerra… sconvolgenti».
A chiudere il racconto è Filippo, ricordando quello che diceva, durante il terzo viaggio a Leopoli, la presidentessa di un’associazione pacifista: «ogni tanto per ottenere la pace è necessario imbracciare un’arma». Secondo il fotografo, questa è la posizione di gran parte degli Ucraini, che si ritrovano a doversi difendere da un nemico che vuole impadronirsi del loro territorio. «Prima di partire per il primo viaggio, prima di conoscere effettivamente le storie, prima di andare in Ucraina ero anch’io pro pace, per il “non sparate”. Poi entri e vedi com’è la realtà, vedi che il mondo è un po’ diverso da come uno se lo immagina, diversa è la realtà dal modo in cui te la raccontano».
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